di Maura Manca Psicologo, Psicoterapeuta Sapienza Università di Roma

In questi ultimi anni nel panorama scientifico nazionale ed internazionale è stato dedicato particolare interesse alle condotte aggressive rivolte al proprio corpo e, nello specifico, all’autolesionismo intenzionale.

 

E’ importante sottolineare che, quando si parla di aggressività, generalmente, vengono in mente modalità etero-dirette, caratterizzate dalla esternalizzazione dei comportamenti, dal rivolgere i propri attacchi verso terzi o verso oggetti o cose, attraverso aggressioni fisiche e/o verbali rivolte direttamente alla vittima (Cerutti e Manca, 2008). Al contrario, l’aggressività auto-diretta è indirizzata verso il proprio Sé e ha, invece, come oggetto da aggredire il proprio corpo. Essa si manifesta soprattutto attraverso condotte autolesive e/o autodistruttive quali: automutilazioni, tentativi di suicidio, scarificazioni, gravi disturbi alimentari, abuso di alcol o droghe, frequenti incidenti stradali, body modification e sport estremi. Nel periodo adolescenziale si possono manifestare anche forme più cruente di manipolazione e modificazione corporea: le scarificazioni, il cutting (tagliarsi la pelle e farsi delle scritte con lamette o qualsiasi altro oggetto contundente) il burning (bruciarsi la pelle). Esse rappresentano, spesso, per l’adolescente, una modalità simbolica di prendere possesso del proprio corpo (Le Breton, 2002), nonché tentativi di difendere la propria identità e di ristabilire i limiti e i confini corporei (Jeammet, 1995).

E’ importante contestualizzare la messa in atto di tali condotte nel periodo adolescenziale al fine di effettuare una distinzione tra comportamenti autolesivi diretti e indiretti. I primi, come dice la parola stessa, hanno conseguenze immediate per la salute della persona (guida in stato di ebbrezza); i secondi, invece, hanno conseguenze negative più a lungo termine, come il fumo di sigarette, l’abuso di alcol o droghe. Esistono, inoltre, negli adolescenti forme di autolesionismo, più culturalmente accettate, che comprendono le pratiche di modificazione del proprio corpo e della propria immagine, attraverso i piercing e i tatuaggi (Favazza, 1998). Nello studiare tali condotte é stata data particolare rilevanza al periodo adolescenziale in quanto caratterizzato da una serie di cambiamenti che favoriscono il passaggio all’atto come mezzo comunicativo carico di valori affettivi e simbolici. L’acting aiuta l’adolescente a comunicare con il mondo esterno e a fronteggiare conflitti interni. Quando si parla di agito spesso si fa riferimento ad un’azione che nasce dal tentativo di scaricare una forte tensione emotiva. Il corpo, per l’adolescente, è, spesso, luogo di espressione della sofferenza psichica e diventa uno strumento di comunicazione di conflitti e difficoltà evolutive. Esso viene utilizzato come narratore di difficoltà profonde che alcuni adolescenti non sembrano essere in grado di comunicare in modo diverso. In quest’ultimo decennio, invece, si è assistito ad un rilevante incremento delle ricerche volte a studiare l’autolesionismo intenzionale, le modalità con cui esso si manifesta e i fattori predisponenti perché si tratta di un comportamento particolarmente diffuso e presente in tutte le fasce sociali, sia tra adulti che tra adolescenti. Per autolesionismo intenzionale (deliberate self-harm- DSH) si intende come quella condotta intenzionale che causa un danno o una lesione al proprio corpo o alcune parti di esso (Favazza, 1996; Gratz, 2001). Tali atti non devono essere associati ad un intento suicidario conscio, non devono verificarsi in risposta ad allucinazioni e in presenza di diagnosi di autismo o ritardo mentale grave (Favazza e Rosenthal, 1993). Di DSH si è iniziato a parlare fin dalla fine degli anni Settanta ed è stato individuato come fenomeno prettamente femminile e messo in atto solo da persone adulte. Studi più sistematici risalgono, invece, agli anni Novanta quando, Armando Favazza (1993; University of Missouri), per primo, ha identificato tali comportamenti come una sindrome con caratteristiche diagnostiche simili ad un Disturbo del Controllo degli Impulsi NAS, definendola Sindrome da Autolesionismo Ripetitivo. Tale disturbo presenta, secondo l’autore, le seguenti caratteristiche: pensieri ricorrenti di danneggiare il proprio corpo; incapacità di resistere agli impulsi di danneggiarlo, da cui deriva la distruzione o la alterazione del tessuto corporeo; crescente senso di tensione prima di mettere in atto condotte autolesionistiche; sensazione di gratificazione e di benessere successiva all’atto. In questi ultimi anni, è Kim Gratz (University of Mississippi) l’autrice che, a livello internazionale, sta portando avanti studi relativi all’autolesionismo intenzionale, in maniera sistematica e continuativa, con il supporto di alcuni strumenti di rilevazione tra cui il Deliberate Self-Harm Inventory (DSHI; 2001) che permette di rilevare la presenza, la frequenza, l’insorgenza e le modalità con cui si manifestano le condotte autolesive. I numerosi contributi scientifici che analizzano l’autolesionismo, evidenziano la difficoltà tra gli autori, a trovare un termine che possa racchiudere in sé le diverse sfaccettature di questo complesso fenomeno. Si riscontra, infatti, una mancanza di accordo in ambito scientifico, in relazione ai fattori predisponenti la messa in atto di condotte autolesive e i disturbi in comorbilità. A causa di queste divergenze non è stato ancora possibile delineare specifici criteri diagnostici per la sua rilevazione, in particolare, in popolazioni non cliniche. Infatti, nonostante tale argomento abbia stimolato un sempre maggiore interesse, soprattutto in questi ultimi anni, permane una certa difficoltà sulla definizione e sulla rilevazione dell'autolesionismo intenzionale. Per tale ragione, soprattutto in Italia, sono pochi gli studi sistematici che analizzano tale fenomeno in popolazioni non cliniche, con particolare riferimento al periodo adolescenziale. Sul territorio nazionale non vi sono strumenti di rilevazione del deliberate self-harm validati e adattati alla popolazione italiana. I dati ottenuti in numerosi anni di ricerche sul territorio nazionale relative alle condotte auto-aggressive, all’autolesionismo intenzionale, alle body modification e a tutte le modalità di attacco al corpo anche nelle forme indirette (guida in stato di ebbrezza, sport estremi), su popolazioni non cliniche e cliniche di adulti e adolescenti, evidenziano una elevata diffusione dell’autolesionismo intenzionale e ripetitivo senza intento suicidario anche nel nostro Paese (Manca, 2009). Per poter effettuare tali rilevazioni è stato utilizzato il Deliberate Self-Harm Inventory di Gratz (2001), nell’adattamento italiano di Cerutti, Manca e Presaghi, 2005 e Cerutti, Presaghi, Manca e Gratz, submitted) e il Repetitive Self-Harm Questionnaire di Manca, Cerutti e Presaghi (2005), strumento in grado di rilevare la Sindrome di Autolesionismo Ripetitivo in linea con i criteri diagnostici proposti da Favazza (1996). I dati relativi ad un lavoro condotto su un campione di studenti universitari hanno evidenziato una percentuale del 38.9% di persone che dichiara di aver messo in atto, almeno una colta nella vita un comportamento autolesivo (Cerutti et al., submitted), rispetto al 35% riferito da Kim Gratz, nello studio di validazione del DSHI (2001).

In uno studio effettuato, invece, su un campione di adolescenti di scuola secondaria di II grado è stato rilevato che la percentuale di ragazzi che dichiara di aver agito una o più condotte autolesive nel corso della vita è pari al 35,2% e che le modalità più frequenti sono il tagliarsi intenzionalmente con lamette, forbici o taglierini i polsi, le braccia ed altre parti del corpo, senza avere l’intenzione di uccidersi, il mordere il proprio corpo e l’incidersi disegni, figure o simboli sulla pelle. Infine, studi su popolazioni cliniche di adolescenti di comunità hanno permesso di rilevare una prevalenza del fenomeno quasi doppia rispetto alla popolazione generale, di circa il 63% (Cerutti e Manca, 2009). Le attività di ricerca e la valutazione anche in ambito clinico dell’autolesionismo offrono un contributo importante alla comprensione dei fattori di rischio e di tutti quei fattori predisponenti la messa in atto di tali condotte. Pertanto, è fondamentale continuare a lavorare in maniera sistematica sullo studio dell’autolesionismo e sui disturbi in comordibità, con la finalità di comprendere più a fondo tale fenomeno e di individuare efficaci piani di prevenzione e di recupero.

Bibliografia

Cerutti R., Manca M. (2008). I comportamenti aggressivi. Percorsi evolutivi e rischio psicopatologico. Nuova edizione. Kappa, Roma

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